lunedì 24 dicembre 2012

 "NATALE", di Guido Gozzano

La pecorina di gesso,
sulla collina in cartone,
chiede umilmente permesso
ai Magi in adorazione.

Splende come acquamarina5
il lago, freddo e un po’ tetro,
chiuso fra la borraccina,
verde illusione di vetro.

Lungi nel tempo, e vicino
nel sogno (pianto e mistero)10
c’è accanto a Gesù Bambino,
un bue giallo, un ciuco nero.

mercoledì 12 dicembre 2012

LA DOPPIA SEGNALAZIONE

Poniamo oggi all'attenzione dei lettori un saggio a firma dello studioso Francisco Rico e la sua presentazione, ad opera di Cesare Segre, sul Corriere della Sera di martedì 11 dicembre. Il libro pone in primo piano la figura del grande scrittore Francesco Petrarca, uno dei padri della nostra letteratura e umanista "ante litteram" per eccellenza; ma il Petrarca che ci presenta Rico è non soltanto l'erudito e infaticabile scopritore di manoscritti e di belle lettere ma l'uomo in carne e ossa, specialmente nei suoi rapporti con i suoi due grandi "antagonisti" del trecento, ovvero Dante e Boccaccio. Tuttavia, se nei confronti del secondo, lo studioso di Valchiusa tenne spesso un atteggiamento di fraterna amicizia ma anche di paternalistico sussiego di chi si considera superiore, è nei confronti del primo che risultano le particolarità più interessanti: tra le righe delle opere di Petrarca e in mezzo ai lacerti della sua coscienza, scritta e riportata dal fitto epistolario, emerge il tratto di una personalità molto critica e caustica, se non forse invidiosa, nei confronti dell'autore della Commedia. Petrarca sarebbe stato dunque alquanto sprezzante nei confronti delle opere dei suoi due grandi antagonisti, predecessore il primo (e, ovviamente, per motivi anagrafici mai conosciuto) e caro amico il secondo; e nei confronti di Dante e Boccaccio, Petrarca fu decisamente scettico, senza reticenze, per quanto riguarda la scelta del volgare a dispetto del più aristocratico e letterario latino, la lingua da lui invece prediletta per la stesura di gran parte delle sue opere. Senza sapere che egli stesso è rimasto celebre nella storia delle lettere proprio per la sua opera "minore", quella che lui considerava come un suo scritto secondario e quasi alla stregua di un personalissimo diario in cui riporre le proprie intimità e gli stati d'animo di un animo innamorato: cioè quel Canzoniere che ci ricorda il suo lungo percorso d'amore per Laura, un'altra delle donne "eterne" della letteratura. Il libro di Rosi ci mostra appunto tutti questi aspetti, con l'aggiunta di dettagli biografici (un "gossip" trecentesco?) che rendono ancora più appetibile il racconto che ci viene presentato, al di là e non soltanto per specialistici di italianistica accademica.


martedì 4 dicembre 2012


LA SEGNALAZIONE: un omaggio a un grande maestro della filosofia.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/12/02/giovanni-reale.html?ref=search

giovedì 1 novembre 2012

Pubblichiamo un racconto dalla pagina facebook delle Cortesie Racconti. Buona lettura!

RACCONTI D'OPERA: "Ciro in Babilonia"

******* REGGIA DI BABILONIA *******
Baldassare tremava. Baldassare tremava e bramava. Perché il potente Ciro stava assediando Babilonia; e perché la sua mente scellerata aveva già escogitato la soluzione per allontanare il temuto rivale. Baldassare si era camuffato da servo persiano insieme ad alcuni suoi fedelissimi soldati. E nel cuore della notte, pur con qualche rischio, era riuscito a penetrare nel campo del suo avversario raggiungendo la tenda della bellissima principessa Amira, moglie di Ciro. Scopo era quella di rapirla e ottenere in tal modo come riscatto la fine dell’assedio di Babilonia. Ma quello che Baldassare non poteva sapere è quale sarebbe stata la sua reazione di fronte alla donna: la fama della bellezza della principessa orientale era giunta sino a Babilonia ma Baldassare non se n’era mai curato perché a lui era sempre interessato il potere e non l’amore; eppure di fronte a quella visione, nel cuore della notte, trovandosi davanti ai propri occhi una donna spaventata e atterrita, avvolta in un lungo scialle nero per coprire la propria intimità, a dispetto di una così brutale invadenza del nemico, Baldassare si innamorò perdutamente. S’innamorò perdutamente e ferocemente. E nello stesso istante in cui la vide, decise in cuor suo che da quel momento in poi Ciro non sarebbe stato più il suo nemico in guerra: ora era diventato soprattutto un rivale in amore e lui, Baldassare, non poteva fare a meno di aver la meglio perché il suo cuore era andato irreversibilmente in fiamme e non c’era modo per spegnere quell’incendio che stava facendo terra bruciata nel suo animo.
Per prima cosa Baldassare ordinò ai suoi soldati di prendere la donna con la forza, fasciandole la bocca con un nastro di stoffa nera per impedirle di urlare e di chiedere aiuto; ma, proprio quando gli uomini armati avevano messo le mani addosso all’inerme regina, ecco irrompere Argene, fedele collaboratrice di Amira e compagna della regina sin dall’infanzia.
“Fèrmati, Baldassare, non compiere un atto indegno del tuo nome!”
“Tu chi sei, serva?”
“Sono Argene, la confidente del cuore di Amira.”
“E come osi dare un ordine a me?”
“Non sto comandando, o valoroso sovrano, ma ti sto supplicando.”
“Bene” – replicò perfidamente Baldassare – “Se tieni tanto alla tua padrona, la seguirai nella prigionia!”. E con sguardo fulmineo ordinò ai suoi soldati di catturare anche l’altra donna.

******* ESTERNO DELLE MURA DI BABILONIA *******
La notizia giunse a Ciro, il Re dei re. Il grande combattente stava decidendo con i suoi uomini come aprirsi un varco attraverso le possenti mura dell’antica città quando giunse un soldato ad annunciare che Amira era sparita e che nella notte erano state viste ombre di uomini in fuga dall’accampamento persiano. Ciro impallidì nel viso, sgranando gli occhi per il terrore di quello che immaginava. E subito dopo gridò: “E mio figlio Cambise?”
“Lui è fortunatamente qui con noi, o sommo imperatore” – gli rispose prontamente il soldato.
Nella tenda calò un profondo silenzio, come se tutti i rumori della sterminata pianura che li circondava fossero stati messi a tacere prima dall’arrivo improvviso di una catastrofe. Ciro scostò i lembi della tenda, scrutando l’orizzonte cremisi del sole nascente: lo sguardo era rivolto verso quegli infiniti paesaggi mentre tutti i suoi uomini attorno a lui aspettavano, attoniti, in attesa di una qualunque sua mossa.
“Fermate la guerra, o miei fedeli combattenti. Questa notte mi devo recare da Baldassare.”

Ciro assunse i panni di un messaggero e si recò, da solo, presso la reggia di Baldassare, presentandosi di fronte alle guardie nemiche camuffato da ambasciatore con urgenti notizie per il re di Babilonia. Gli immensi leoni di pietra che costeggiavano le scale della reggia lo osservavano con sussiego e sguardi altezzosi. Ciro poté presentarsi al cospetto del sovrano, però, solo grazie alla mediazione di Arbace, generale di Baldassare ma segretamente innamorato di Argene, e per questo desideroso della pace.
“Grande Baldassare, il mio sovrano mi manda da te per proporti la pace!” – esordì Ciro, avvolto nella sua umile tunica bianca e il volto ricoperto di cerone bianco.
“Ti ascolto, ambasciatore, ma usa bene le tue parole. Altrimenti ti punirò crudelmente per la tua empietà” – minacciò di tutta risposta Baldassare, assiso nel suo alto trono in cima al baldacchino decorato con fregi accadici.
“Mi manda Ciro, il Grande. Propone a te, o illustre, la fine dell’assedio in cambio della restituzione di sua moglie Amira. La tua clemenza è nota in tutte le terre conosciute e Ciro chiede a te venia” – e, mentre parlava, tirò fuori due meravigliosi smeraldi del colore del Tigri.
“Parli bene, legato. Ma le tue parole sono infide come colui che ti manda. Io non accetto nulla dal tuo re, nessuna proposta né alcun dono. Io non temo il suo esercito e, come potrai vedere, ora ho anche la sua donna con me!” – e con un cenno degli occhi diede un ordine a una delle sue guardie. Questa sparì e subito dopo rientrò, tenendo in catene una donna dai lunghissimi capelli corvini e dalla faccia consumata dalle lacrime.
Ciro sussultò con il cuore in direzione della donna, ma non fece trapelare nessuna emozione. Ma la donna accigliò ancor di più i suoi lineamenti di principessa verso il marito che aveva riconosciuto subito, senza però riuscire a dire alcuna parola né a emettere qualche suono dalle sue labbra ondulate.
“Illustre, la pace può essere di giovamento per entrambi!” – supplicò l’ambasciatore.
Ma Baldassare non mutò espressione, semmai rese ancor più gelido il suo sguardo vitreo che tagliava l’aria sotto il suo lungo copricapo a forma conica e intessuto dei simboli del suo potere.
“A me la pace non porta alcun giovamento, ambasciatore. Perché tutto è in mano mia, anche lui!” – e indicò con la mano un bambino che era rimasto nella penombra e che ora un'altra guardia metteva sotto la luce degli imponenti candelabri regali.
“Cambise!” – urlò Amira, a stento trattenuta dalle catene, il grido quasi soffocato dallo strazio.
Ciro incupì il viso in un angoscioso spasimo di dolore.
“E ora ho anche te!!” – tuonò Baldassare, alzandosi in piedi e fissando il re dei re dall’alto del suo scranno.
Ciro si volse attorno, angosciato, mentre decine di soldati lo stavano accerchiando con le lame luccicanti in mezzo ai fuochi della reggia nemica.

******* PRIGIONE SOTTERRANEA *******
Dunque fia ver che il vincitor di Creso, de’ Lidi il domator di ferri cinto penar debba così?... Misero!...” – latrava dentro di sé il sommo re, con i polsi legati da massicci anelli di metallo agganciati tramite catene agli enormi massi della prigione di Baldassare.
… ahi quanto il destin crudele ti persegue e t’opprime!” – pensava Ciro fissando oltre le inferriate il cielo stellato e luminoso. Ma in lontananza, in un orizzonte arrossato e tuonante, si annunciavano lampi di fiamme che presagivano una tregenda di rombi e sventure, riversanti la loro rabbia sulle lontane alture iraniche.
Ciro pensava al fato, alla volontà divina. Tutto ormai era perduto per lui, come un leone in gabbia incapace di dar sfogo alla sua vendetta. Un alone di morte aleggiava intorno a lui, mentre i fulmini lontani sembravano voler rimarcare la sentenza inesorabile di quel suo destino. Fu allora che Ciro ripensò ai suoi prigionieri, gli Ebrei, quel popolo che lo aveva sempre incuriosito per la sua incrollabile fede nel loro dio, nonostante le tante tragedie che avevano caratterizzato la loro storia. E se gli Ebrei avevano sempre mantenuto la speranza nel loro nume, pur nei momenti più cupi della loro vicenda tragica, perché quello stesso dio non poteva ascoltare ora lui? Sì, proprio lui, Ciro il Grande, si inchinava a un sovrano che riconosceva a lui superiore, il Re dei cieli.
“Oh, Dio d’Israello” – gridò Ciro nella stanza solitaria – “A te rivolgo le mie umili preghiere.”
L’uomo abbassò il capo in segno di rispetto prima di proseguire.
Lo giuro, Nume, che pur ti sento entro il mio cuore, vendicato sarai. Nel giorno istesso ch’io vincerò per te, de’ fidi tuoi sciolti saranno i ceppi e le catene, libero il culto tuo!” – e promise solennemente dentro di sé la liberazione del popolo di Israele.
“Ciro!!”
Il Re dei re si girò di scatto e vide in piedi, sulla soglia della prigione, l’amata consorte.
“Amira!”
“Amore” – disse la donna, correndo tra le braccia del regale marito.
“Amira, Amira, vita mia… respiro delle mia membra, Amira, Amira mia, luce della mia esistenza, Amira…”.
“Ciro, mio sovrano e mio re!”
“Amira, acqua della mia terra, non credevo di poterti più abbracciare… ma come hai fatto a entrare qui?”
“Mi ha aiutato Arbace.”
“Arbace, o clemente guerriero! Se mai il destino rivolgerà su di noi il suo sorriso benevolo, saprò rendergli onore per questa grazia!”
Ma un tuono più forte risuonò cupo di lontano e poco dopo si sentirono passi frenetici lungo gli antichi gradini che conducevano all’oscura prigione, quella stessa prigione che aveva rinchiuso i nemici più acerrimi della civiltà babilonese. Le porte di ferro si aprirono nuovamente con schianto terribile e funesto.
“Ahi, tradimento!!” – gridò Baldassare, circondato da guardie armate e assetate di vendetta.
“Voi, voi due…” – la mano del sovrano di Babilonia indicò con gesto sprezzante i due consorti, strettamente abbracciati e con gli occhi fulminati dal terrore.
Baldassare sentiva il sangue rifluire nel suo corpo come un fiume in piena, la gola avvampata da spirali di rabbia e di gelosia.
“Separateli e imprigionate Ciro per sempre!!!” – gridò, schiumoso in bocca, alle sue guardie.

******* REGGIA DI BALDASSARE *******
Era grande festa nel palazzo del sovrano: principi e principesse, nobili e maggiorenti, tavole colme di cibo e bevande, musiche e arazzi. Così aveva voluto Baldassare. Accanto a lui, nella gran tavolata, sedeva Zambri con espressione compiaciuta. Il principe, fedele sin dalla nascita al suo sovrano, mostrava in volto un ghigno di piacere: guardava dall’altra parte della tavola Amira e Argene che lui aveva costretto a male parole a presenziare al gran banchetto. E così rideva, Zambri, con la sua faccia da ragazzino e l’ambizione smisurata: sognava e pensava un giorno di essere lui il sovrano delle popolazioni della mezzaluna. E rideva accanto a lui Baldassare, nel pieno del suo fulgore e all’apice della sua vittoria. E dietro di lui risplendevano gli arredi sacri del Tempio di Gerusalemme.
Ma d’un tratto un tuono rimbombò con fragore d’inferno. Due finestre si spalancarono, facendo entrare un vento rigido e brutale. E da quella parte si girarono tutti i convitati, spaventati e sorpresi. E fu su quella parte di parete che comparve minacciosamente una scritta, di un abbagliante color giallo contro lo sfondo ocra della muratura: “Mani, Thecel, Phares”.
“Che significa ciò?” – imprecò Baldassare, alzandosi in piedi.
“È l’inizio della tua fine!” – gridò una voce ieratica, dall’alto della possente scalinata regale.
Tutti si voltarono, il sovrano compreso. Le guardie restarono immobili, paralizzate di fronte all’apparizione di un vegliardo austero, con lunga barba canuta. L’uomo, dalla sua postura solenne, alzò un braccio al cielo e strinse con l’altra mano un bastone di legno chiaro.
“È la tua fine, Baldassare. Tua e della tua stirpe! La giusta punizione per aver portato blasfemia al tempio degli Israeliti!”
“Daniello, profeta di sventura! Non penserai proprio che io ti possa ascoltare?” – e con lo sguardo il re babilonese cercava i soldati. Ma Daniello continuava, incurante del resto.
“Oh, maledetto profanatore. Hai voluto decorare la tua dimora con gli arredi sacri del nostro luogo di culto, non portando rispetto a noi e a chi noi adoriamo. Ma il Dio d’Israello ti punirà per la tua insolenza, e questa notte stessa Babilonia sprofonderà tra le fiamme. E il tuo regno sarà spartito tra Medi e Persiani. E tu sarai gettato negli abissi della perdizione e della dannazione eterna!!”
“Prendete quell’uomo!” – ordinò Baldassare, con gli occhi iniettati di furore – “E tornatevene tutti da dove siete venuti…!
La reggia si svuotò rapidamente, tra l’angoscia e lo sbigottimento generale. Ma più di tutto dominò un silenzio che echeggiava paurosamente in un cielo fattosi sempre più plumbeo. Solo Zambri era vicino al suo re.“Chiamami i re Magi. Subito!”
“Sarà fatto immediatamente, mio signore!”.
Ma, camminando velocemente verso l’uscita, Zambri sentì dentro di sé un sussulto, come la percezione di un cristallo che si fosse incrinato. Voltò lo sguardo un’ultima volta, prima di uscire, e vide Baldassare seduto al lato della mastodontica mano e dell’enorme piede, resti della colossale statua del dio Marduk, che una volta ornava il centro della sala, fin quasi a toccare il soffitto.
La figura di Baldassare invece era minuscola, stagliata contro quelle possenti rovine. Egli aveva le mani sulla fronte ma si capiva che i suoi occhi erano fissi al cielo oltre la finestra, un cielo senza luce né astri.
Nel frattempo, dalla parete l’inquietante scritta era scomparsa.

******* STANZA-PRIGIONE DI AMIRA *******
“Non aver paura, regina, tutto si risolverà!”
“Lo credi davvero, mia Argene?”
“Vedrai che tuo marito, Ciro il Grande, troverà il modo di liberarsi e di venire a salvarci.”
“Fosse così, mia dolce e amata compagna dell’infanzia! Ma Zambri è appena venuto qui, poco fa, a comunicare di prepararmi per il sacrificio. Baldassare vuole offrire me, Ciro e Cambise agli dei per placare la loro ira. Così gli hanno suggerito i Magi”.
L’orrore prese forma sul volto di Argene. “No, mia regina, no…”
Le due donne si strinsero in un lungo abbraccio, avvolte dai sospiri e dall’impossibilità reciproca di proferir altra parola.

******* GRAN PIAZZA DI BABILONIA *******
Tutto oramai è pronto per il rito. La bocca della morte è stata allestita su un lato dell’enorme piazzale, sotto l’imponente gradinata dello ziqqurat imperiale: all’interno delle fauci della bocca arde un enorme fuoco, pronto a divorare tra le sue fiamme le vittime predestinate.
Baldassare è seduto in cima alla maestosa tribuna, sotto le gloriose insegne delle antiche città di Ur e Uruk, Nippur e Lagash e con in mano lo scettro di Nabucodonosor.
Sul palco Ciro, Amira e Cambise sono circondati dai soldati babilonesi. Nello sguardo di Ciro la rabbia si mescola alla compassione per la sorte che presto sarebbe toccata all’amata moglie e al piccolo figlio, l’erede al trono. La folla si è assiepata ai margini della grande piazza, in attesa fremente del gran momento dell’esecuzione. Viene il turno di Amira, accompagnata dai militari sulla soglia della grande bocca di fuoco.
Ma Baldassare è inquieto, più che mai. Nel giorno, nell’ora, nell’istante del suo trionfo altro tempesta il suo cuore in continua ricerca di requie: e la tempesta ha l’aspetto di Amira. Lei lo ha rifiutato ma lui l’ama perdutamente. No, non può sacrificarla.
No, non può rinunciare all’amore della sua vita. I lunghi capelli della donna ondeggiano al vento, coprendole la fronte, sotto un cielo carico di nuvole minacciose.
No, non può e non vuole. Lui, Baldassare, non avrebbe mai rinunciato alla sua passione, al costo estremo di rimetterci il regno e, se necessario, anche la vita.
Il re alza il braccio, fermando l’esecuzione sul momento decisivo. La folla reagisce con un boato di disapprovazione. I Magi incrociano lo sguardo del sovrano, intuendo la volontà del loro signore: nei loro sguardi si legge una dura riprovazione per quello che sarebbe successo, in seguito a quest’improvvisa decisione del monarca di Babilonia.
“Fermatevi, o soldati! Ho deciso di concedere la grazia alla regina. Consegnate, però, al fuoco eterno l’usurpatore Ciro e il suo empio figlio.”
Amira si gira di scatto verso Baldassare, cercando i suoi occhi. Nell’espressione dolorosa e disperata della donna si condensa, però, tutta la bellezza del suo viso e la dolcezza dei suoi lineamenti orientali. Baldassare si rende conto che se ne sta innamorando ora più che mai, nello stesso momento in cui lo sguardo silenzioso della donna pronuncia la sentenza di eterno odio nei suoi confronti. L’ama più che mai nell’attimo stesso in cui si rende conto che non l’avrebbe mai fatta sua.
E, mentre osserva ancora l’oggetto della sua perdizione, una freccia lo colpisce al cuore, troncandogli il respiro in gola. Si volta verso Zambri, ma il giovane principe non è più al suo fianco; poi si volta verso Ciro e lo vede con l’arco in mano e la catene sciolte. Solo allora realizza di essere stato abbandonato da tutti mentre in lontananza, lungo il solenne viale delle processioni, sente il rimbombo dell’esercito persiano che è entrato a Babilonia, superando le sacre arcate della porta di Ishtar. È allora che Baldassare vede i suoi soldati inermi, fatti prigionieri; è allora che si rende conto che si è realizzata l’unione cosmica tra terra e cielo, come insegnavano i sacerdoti dall’alto dei templi sulla parte sommitale dello ziqqurat. L’universo ha seguito le sue leggi inesorabili, richiedendo la sua morte per non aver rispettato il patto con gli dei: la cosmogonia mesopotamica ha sempre conosciuto le fila di quella storia, rendendo il suo amore perduto e non ricambiato per la bella Amira una tappa ineludibile per il rispetto dell’ordine naturale e cosmico del creato. E Baldassare ora lo comprende con inaspettata chiarezza, mentre ancora può sentire la forza dell’amore scorrergli impetuosa lungo le vene del corpo e mentre sta perdendo l’equilibrio, per cadere per sempre a terra, accecato dal suo stesso desiderio.
(Versione romantica dal libretto dell’omonima opera di G. Rossini)

lunedì 22 ottobre 2012

STORIE AL TELEFONO: LE FAVOLE DI GIANNI RODARI

Ripubblichiamo un'altra favola oggi: la storia di un uomo che voleva troppo, consumato dall'avidità e dalla brama di ricchezza.
Una storia dal valore universale e una metafora dei nostri tempi...


"Il re Mida"

Il re Mida era un grande spendaccione, tutte le sere dava feste e balli, fin che si trovò senza un centesimo.
Andò dal mago Apollo, gli raccontò i suoi guai e Apollo gli fece questo incantesimo:
-Tutto quello che le tue mani toccano deve diventare oro.
Il re Mida fece un salto per la contentezza e tornò di corsa alla sua automobile, ma non fece in tempo a toccare la maniglia della portiera che subito la macchina diventò tutta d'oro: ruote d'oro, vetri d'oro, motore d'oro. Era diventata d'oro anche la benzina, così la macchina non camminava più e bisognò far venire un carro coi buoi per trasportarla.
Appena a casa il re Mida andava in giro per le stanze a toccare più cose che poteva, tavoli, armadi, sedie, e tutto diventava d'oro.
A un certo punto ebbe sete, si fece portare un bicchiere d'acqua, ma il bicchiere diventò d'oro, l'acqua pure, e se volle bere dovette lasciarsi imboccare dal suo servo col cucchiaio.
Venne l'ora di andare a tavola. Toccava la forchetta e diventava d'oro e tutti gli invitati battevano le mani e dicevano:
- Maestà, toccatemi i bottoni della giacca, toccatemi questo ombrello.
Il re Mida li faceva contenti, ma quando prese il pane per mangiare anche quello diventò d'oro e se volle cavarsi l'appetito dovette farsi imboccare dalla regina.
Gli invitati si nascondevano sotto il tavolo a ridere e il re Mida si arrabbiò, ne acchiappò uno e gli fece diventare d'oro il naso, così non poteva più soffiarselo.
Venne l'ora di andare a dormire, ma il re Mida, senza volerlo, toccò il cuscino, toccò le lenzuola e il materasso, diventarono d'oro massiccio ed erano troppo duri per dormirci. Gli toccò di passare la notte seduto su una poltrona, con le braccia alzate per non toccare niente, e la mattina dopo era stanco morto.
Corse subito dal mago Apollo per farsi disfare l'incantesimo, e Apollo lo accontentò.
- Va bene, - gli disse, - ma sta' bene attento, perché per far passare l'incantesimo ci vogliono sette ore e sette minuti giusti, e in questo tempo tutto quello che toccherai diventerà cacca di mucca.
Il re Mida se ne andò tutto consolato, e stava bene attento all'orologio, per non toccare niente prima che fossero passati sette ore e sette minuti.
Purtroppo il suo orologio correva un po' più del necessario, e andava avanti un minuto ogni ora.
Quando ebbe contato sette ore e sette minuti il re Mida aprì la macchina e ci montò, e subito si trovò seduto in mezzo a un gran mucchio di cacca di mucca, perché mancavano ancora sette minuti alla fine dell'incantesimo.
 

sabato 13 ottobre 2012

Leonardo: Strangolami un po' più forte, Ministro, non ti sen...

Leonardo: Strangolami un po' più forte, Ministro, non ti sen...: Questo è un pezzo un po' diverso dagli altri in cui dico la mia opinione eccetera eccetera. È più una richiesta di aiuto. Dunque, ieri ho ...

 
STORIE AL TELEFONO: LE FAVOLE DI GIANNI RODARI

Nel nome della fantasia, dell'inventiva e della tenacia, proponiamo oggi una delle favole più conosciute del maestro Rodari.


"La strada che non andava in nessun posto"
...

All'uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto. Martino lo sapeva perché l'aveva chiesto un po' a tutti, e da tutti aveva avuto la stessa risposta: - Quella strada lì? Non va in nessun posto. È inutile camminarci. - E fin dove arriva? - Non arriva da nessuna parte. - Ma allora perché l'hanno fatta? - Non l'ha fatta nessuno, è sempre stata lì. - Ma nessuno è mai andato a vedere? - Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c'è niente da vedere... - Non potete saperlo, se non ci siete stati mai. Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto. Quando fu abbastanza grande da attraversare la strada senza dare la mano al nonno, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti. Il fondo era pieno di buche e di erbacce, ma per fortuna non pioveva da un pezzo, così non c'erano pozzanghere. A destra e a sinistra si allungava una siepe, ma ben presto cominciarono i boschi. I rami degli alberi si intrecciavano al di sopra della strada e formavano una galleria oscura e fresca, nella quale penetrava solo qua e là qualche raggio di sole a far da fanale. Cammina e cammina, la galleria non finiva mai, la strada non finiva mai, a Martino dolevano i piedi, e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane. «Dove c'è un cane c'è una casa, - rifletté Martino, - o per lo meno un uomo». Il cane gli corse incontro scodinzolando e gli leccò le mani, poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora. - Vengo, vengo, - diceva Martino, incuriosito. Finalmente il bosco cominciò a diradarsi, in alto riapparve il cielo e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro. Attraverso le sbarre Martino vide un castello con tutte le porte e le finestre spalancate, e il fumo usciva da tutti i comignoli, e da un balcone una bellissima signora salutava con la mano e gridava allegramente:- Avanti, avanti, Martino Testadura! - Toh, - si rallegrò Martino, - io non sapevo che sarei arrivato, ma lei sì. Spinse il cancello, attraversò il parco ed entrò nel salone del castello in tempo per fare l'inchino alla bella signora che scendeva dallo scalone. Era bella, e vestita anche meglio delle fate e delle principesse, e in più era proprio allegra e rideva: - Allora non ci hai creduto. - A che cosa? - Alla storia della strada che non andava in nessun posto. - Era troppo stupida. E secondo me ci sono anche più posti che strade. - Certo, basta aver voglia di muoversi. Ora vieni, ti farò visitare il castello. C'erano più di cento saloni, zeppi di tesori d'ogni genere, come quei castelli delle favole dove dormono le belle addormentate o dove gli orchi ammassano le loro ricchezze. C'erano diamanti, pietre preziose, oro, argento,e ogni momento la bella signora diceva: - Prendi, prendi quello che vuoi. Ti presterò un carretto per portare il peso. Figuratevi se Martino si fece pregare. Il carretto era ben pieno quando egli ripartì. A cassetta sedeva il cane,che era un cane ammaestrato, e sapeva reggere le briglie e abbaiare ai cavalli quando sonnecchiavano e uscivano di strada. In paese, dove l'avevano già dato per morto, Martino Testadura fu accolto con grande sorpresa. Il cane scaricò in piazza tutti i suoi tesori, dimenò due volte la coda insegno di saluto, rimontò a cassetta e via, in una nuvola di polvere. Martino fece grandi regali a tutti, amici e nemici, e dovette raccontare cento volte la sua avventura, e ogni volta che finiva qualcuno correva a casa a prendere carretto e cavallo e si precipitava giù per la strada che non andava in nessun posto. Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l'altro, con la faccia lunga così per il dispetto: la strada, per loro, finiva in mezzo al bosco, contro un fitto muro d'alberi, in un mare di spine. Non c'era più né cancello, né castello, né bella signora. Perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova, e il primo era stato Martino Testadura.