venerdì 18 gennaio 2013

RACCONTI D'OPERA:
"Il signor Bruschino, una palliata rossiniana"



Florville era appena giunto all’ingresso della villa “Aurea”, situata poco distante la città. Aveva camminato spensieratamente, sotto uno splendido sole primaverile che rinfrancava il cuore e la mente con i suoi raggi già caldi. Ma all’arrivo ben altre sorprese dovevano aspettarlo, rispetto a quanto il giovane ottimato aveva progettato per sé e per il suo futuro.

“Cerco donna Sofia!” – aveva esordito, con aria tronfia e sicura, alla fanciulla che gli aveva aperto il massiccio portone.

“Lei c’è e sta già aspettando qualcuno.” – fu la risposta laconica della giovane serva.

“Eccolo!” – si era mostrato con il petto in fuori Florville, pavoneggiandosi come un gallo fiero, all’ingresso di un ridente pollaio. Indossava una tunica di stoffa rossa, appena acquistata al foro da un vecchio mercante originario della Persia. Era il suo modo di presentarsi “pulcher” e irresistibile agli occhi della giovane Sofia, figlia di Gaudenzio e ormai sua pupilla da diverso tempo.

“Ma non aspetta te, stolto!”

“Come sarebbe a dire…?” – replicò sorpreso Florville, in parte spiazzato per il linguaggio confidenziale con cui la serva si stava rivolgendo a lui.

“Donna Sofia aspetta il signor Bruschino, il suo futuro sposo.”

“Il signor… chi? Il suo futuro… cosa??”

Sorpresa e sbigottimento si erano palesati sul volto di Florville, inattesi quanto una tempesta di neve sulle domus di Roma. Ma la sua reazione fu anticipata dal gesto perentorio dell’ancilla che chiuse bruscamente il portone e rientrò in casa.

Florville, tuttavia, non si perse facilmente d’animo. Aggirò i muri esterni dell’abitazione e giunse nel retro, dove c’era il locale della cucina. “Per aspera ad astra”, si ripeteva continuamente. Qui, appostatosi come un corvo curioso su un ramo, si mise a fissare con cura le finestre del locale in attesa che passasse qualcuno; poi incominciò a fischiare come un volatile vero e proprio, petulante e insistente allo stesso modo. Sulla soglia apparve un uomo con una veste unta di oli e sangue sul petto, e un enorme coltello, affilato come un gladio da battaglia.

“Che diavolo succede, qui?” – fu l’urlo dell’uomo, affacciatosi sull’uscio.

Florville si fece avanti, incurante dell’aspetto minaccioso del cuoco. Alzò la mano per attirare subito l’attenzione.

“Cerco notizie. Ho con me argomenti convincenti.” – ribadì Florville, facendo risuonare nella mano un consistente pugno di monete che aveva appena tirato fuori.

“Spero che siano davvero convincenti.” – rispose prontamente il cuoco, facendo scorrere intenzionalmente la lunga lama lungo il bavero del suo grembiule.

Florville rimase per un momento interdetto ma poi si fece coraggio e avanzò in direzione del corpulento servo della cucina.

“Vorrei avere informazioni su un certo uomo, di nome Bruschino.”

“Capiti a fagiolo, ragazzo. La persona che cerchi è racchiusa nella mia cantina, così impara a non onorare i propri debiti…”

Nel volto di Florville apparve subito un raggiante sorriso.

“E a quanto ammonterebbero i debiti di questo… questo furfante?”

“Il doppio di quelli che hai in mano” – e il cuoco fece un altro giro di lama sulla sua tunica.

“E io te ne do il triplo se tu lo lasci laggiù ancora per un po’!”

“Bene” – disse tuonante il cuoco, senz’alcuna espressione – “Ma voglio subito la pecunia. Non ho tempo da perdere, devo ancora mettere sul fuoco la carne per cena…”.

Florville preso un altro gruzzolo dalla sua bisaccia e lo collocò sulla mano aperta del cuoco, osservando con un certa apprensione i gesti dell’altra mano del servo che impugnava il coltellaccio.

“Bene” – replicò ancora il cuoco, un modello mancato di concisione dialettica nel foro.

“E ci deve stare, il nostro giovane Bruschino” – esitando per un momento, Florville con un gesto del capo indicò la cantina sottostante alla cucina – “fino a quando non verrò a liberarlo io stesso. E nessun altro.”

“Comandi, domine!” – concluse il cuoco, rientrando in casa. Ma nel suo volto era apparso un ghigno di soddisfazione ben più che culinaria.

Poco dopo Florville si presentò nuovamente al portone di villa “Aurea”.

“Ancora tu?” – esordì quasi stizzita la giovane serva di prima.

“Consegna questa al tuo padrone” – ribadì senza esitazione Florville, mentre consegnava una epistula alla serva.

L’ancilla prima guardò la missiva, poi con la stessa aria sorpresa rivolse lo sguardo all’uomo che era per la seconda volta di fronte a lei, sull’ingresso della regale domus, sempre impettito come le prima volta. Florville mostrava in volto una smorfia boriosa, sempre da gallinaccio sulla soglia dell’aia.

 

L’epistula era a firma di Bruschino senior e descriveva al pater familias di casa, Gaudenzio, le generalità fisiche di Bruschino iunior, alias Florville, e pregava il nobile romano di prendersi in casa il giovane e di accettare la sua richiesta di matrimonio con la bella Sofia, figlia di Gaudenzio. In più il testo riportava le scuse di Bruschino senior per non essere potuto venire di persona ma un urgente affare lo aveva allontanato da Roma, in direzione della Lucania per una compravendita di bestiame; ma presto sarebbe rientrato nell’Urbe e si sarebbe anche lui presentato a casa di Gaudenzio, per definire gli ultimi dettagli del matrimonio. Infine, l’epistula chiedeva “gratia” e “pietas” per il giovane Bruschino iunior, bravo ragazzo ma talvolta esuberante, e non sempre facile da sopportare nelle sue stravaganze. Ma Bruschino maior era certo che il suo filius si sarebbe comportato sempre all’altezza di un vir romano, e anche i suoi difetti si sarebbero gradualmente sciolti con il matrimonio, come le nevi ad aprile sui colli piceni. Così terminava lo scriptum.

Naturalmente l’epistula era un falso clamoroso, un artefatto frutto dell’inventiva e della sagacia di Florville, che ora faceva il suo ingresso nella domus di Gaudenzio con tutti gli onori del caso.

“Vieni, adulescens, sei ospite graditissimo nella mia dimora!” – erano le parole di Gaudenzio che faceva strada all’intraprendente ottimato lungo i colonnati del cortile interno. I due giunsero nella sala principale, di fronte al focolare domestico e al cospetto dei Lari della gens di Gaudenzio. Ogni tanto compariva qualche servo per portare bevande e vassoi di frutta fresca e profumata.

“Sono proprio contento che un giovane come te abbia chiesto la mano di mia figlia, un giovane patrizio di una così nobile famiglia romana.”

Florville ora gongolava come non mai, mentre con la mano toccava la bisaccia all’interno della quale c’era la brutta copia della pergamena con la quale aveva scritto l’epistula.

“C’è chi gode di una aulularia, mio ragazzo. E invece io godo perché ho trovato per la mia dolce figliola un ottimo partito, ben più prezioso dello stesso oro!”

Florville rideva, e beveva vino rosso delle pianure etrusche, e mangiava chicchi d’uva proveniente dalle fertili terre sicule. Ma, in realtà, Florville pensava ad altro, alla sua sistemazione, al suo futuro, alla sua bella Sofia. Aveva anche indossato un lungo pilleum, il cappello a cono, per darsi ancora più ritegno. Ma Gaudenzio inizialmente lo aveva squadrato con diffidenza, chissà perché un giovane romano doveva indossare sua sponte un copricapo tipico della servitù; poi, però, le parole di Bruschino senior lo avevano decisamente rallegrato e ora attribuiva quella strana scelta del giovine, con molta probabilità, a una delle sue già descritte stravaganze.

D’un tratto riappare la serva del portone, con un equivoco sorrisetto sulle labbra, ad annunciare l’ingresso in scena di Bruschino senior.

“Caro Gaudenzio, mi sono liberato con anticipo dei miei affari, ed eccomi subito da te!”

Gaudenzio si alzò con prontezza dal triclinio e corse ad abbracciare l’ospite.

“Da quanto tempo, mio caro Bruschino! E che piacere! E anche che combinazione… vedi proprio là tuo figlio?”

Bruschino senior volse lo sguardo in direzione di Florville, il quale aveva assunto l’espressione bovina di un animale prima del macello.

“E quello chi sarebbe??”

“Ma tuo figlio Bruschino, oh mio caro amicus Bruschino!”

“Ma che Bruschino e Bruschino, per Ercole! Quello non è mio figlio!!”

Gaudenzio rimase per un attimo in silenzio, poi disse fra sé e sé: “Questo birbante qui ha cambiato idea e ora s’è inventato questa fabula per non far più sposare suo figlio con Sofia. Il taccagno…! Ma gli gioco ora io un brutto scherzo…”

“Che dici, Bruschino? Non riconosci tuo figlio?”

“Quello non è assolutamente mio figlio!” – replicò stizzito Bruschino senior.

“Ma come? È uguale a te nel viso! Stessi lineamenti, come due menaecmi!”

“Quello uguale a me…? Con quella faccia da agnus rincretinito??”

“Che dici, Bruschino? Trattare così tuo figlio!!”

“Non è mio figlio, ripeto!” – s’irrigidì Bruschino, sempre più offeso. La rabbia oramai stava divampando in lui come la furia di una legione all’assalto.

E mentre i due discutevano così animatamente, Florville se ne stava in un angolino della stanza, rintanato come un pulcino spaventato e la faccia da pesce lesso.

E tutto questo caos richiamò l’attenzione della bella Sofia, che si affacciò sulla scena.

“Per tutti i numi, che cosa succede qua dentro? Che razza di lupercale è questo?”

“Sofia, dolce figlia, vieni qua. Bruschino senior  è impazzito e non vuole riconoscere più il figlio.”

La deliziosa puella si avvicinò al padre, con gli occhi fissi su Bruschino senior. Il padre le si accostò all’orecchio:

“Cave, filiam! Questo qui ci vuole turlupinare…”

“Ma caro Bruschino, che dice mai lei? Un uomo della sua gens, così ammirato e venerato in tutta Roma, che dice di non riconoscere più suo figlio, il sangue del suo sangue!”

“Quello non è mio figlio, per Ercole. E ancora per Ercole!”

E nel frattempo giunse anche il resto della servitù, richiamata dagli strepiti sempre più forti dei due uomini a cui si era aggiunta anche la voce soave ma stridula della giovane Sofia, non meno arrembante del padre.

Florville si accorse anche che la serva, sempre quella disgraziata che gli si era presentata all’inizio, ora lo fissava con dichiarato compiacimento.

“Maledetta femina!”, pensò tra sé – “Ecco chi mi ha lanciato addosso il fascinum[1]…”

Ma poi Florville notò tra la familia della servitù il volto, come sempre rigorosamente inespressivo, del cuoco Filiberto. Florville, allora, lo fissò a lungo per incrociarne gli occhi e, quando questo avvenne, alzò con una mano la sua bisaccia per indicargli da lontano il ricco contenuto di monete.

“Intervieni ora, se ne vuoi altro, brutto barbaro da cucina che non sei altro” – fu il suo pensiero.

Filiberto non era certo uomo di lettere ma non era neanche sciocco come l’asino della favola di Esopo. Per questo, non appena si presentò l’occasione, si fece avanti tra la folla dei servi e prese la parola.

“Perdono, domine Gaudenzio, ma io conosco quest’uomo.”

Gaudenzio, Buschino senior e la bella Sofia si girarono stupefatti verso di lui, mentre tutte le altre parole si erano troncate sulla loro bocca. Fu un improvviso silenzio, come se Giove stesso fosse sceso in persona tra gli homines a dirimere la questione. Sembrava essersi piombato all’improvviso un gelo tra tutte quelle persone, allo stesso modo in cui ce lo presenta Omero nel suo presunto “Inno a Demetra”.

“Quest’uomo qui è il signor Bruschino.” – disse Filiberto, indicando lo spaurito Florville.

 

Poco dopo, la calma era rientrata nella grande domus. Gaudenzio aveva offerto le sue camere per un riposo a tutti gli ospiti, un modo questo per rasserenare gli animi e avere un po’ più di tempo per ragionare sugli eventi: ma ormai Bruschino senior non poteva più tornare indietro e suo filius si sarebbe sposato con la sua Sofia, e per lui da questo matrimonio sarebbero derivati soltanto vantaggi. E tanta pecunia, ovviamente.

Ma Gaudenzio non poteva sapere quello che sarebbe successo di lì a poco. E se lo avesse saputo, ora non si sarebbe sdraiato sul letto della sua camera a riposare e a progettare speranzosamente il suo futuro. Perché, nello stesso momento in cui appoggiava serenamente il proprio caput sul morbido guanciale, in un altro lato della sua spaziosa domus Bruschino senior stava origliando dietro una porta. E stava ascoltando il dialogo, non proprio a bassa voce, tra Filiberto e il suo presunto filius, ovvero Florville. E le parole di Filiberto non erano certo parole di fraternità. Filiberto, in breve, chiedeva ancora più soldi a Florville (trovata una pentola d’oro, si vuole ricavarne quanto più denaro possibile! – sempre per richiamarci all’aulularia), non accontentandosi di quanto sinora promesso dal giovane rampante. E Bruschino senior aveva anche intuito che suo filius, quello vero, era rinchiuso in qualche lurida e sporca cantina, a pagare il fio delle sue promesse non rispettate e dei suoi debiti non sanati. E ben gli stava, pensava il padre, che finalmente godeva di questa punizione al filius, sempre quello vero, che si era comportato come suo solito in un modo che avrebbe fatto ribrezzo agli dei. E quante volte avrebbe voluto punirlo in modo esemplare, e ora l’occasione gli capitava tra le mani, senza che lui, Bruschino senior, avesse fatto niente. Sursum corda! Le cose si stavano mettendo bene per lui. E ora che ci pensava, non avrebbe fatto niente neanche per smascherare l’altro inganno. Anzi, lui stesso avrebbe continuato in quella recita. Gaudenzio voleva suo figlio, quello falso, alias Florville, come marito per la sua bella Sofia, dunque? E lui glielo avrebbe dato volentieri. Peccato che Gaudenzio non sapesse che sua filia avrebbe avuto come sposo quel Florville, figlio di un senatore che era il più grande rivale nella curia romana proprio dello stesso Gaudenzio! Redde rationem!, pensava quindi soddisfatto Bruschino senior, mentre ascoltava dietro la porta le minacce cariche di improperi del villoso Filiberto e la intimorite raccomandazioni di Florville.

E venne così il giorno del matrimonio. Tutto era stato organizzato in pompa magna da Gaudenzio, felice come un mortale al convito dell’Olimpo. E Sofia aveva un sorriso raggiante, perché pregustava le gioie della sua futura vita da matrona. E Florville sorrideva, su quella faccia da minchione con cui si era presentato la prima volta alla porta di Gaudenzio. E Bruschino senior rideva dentro di sé, godendo dell’inganno a cui era sfuggito e del tiro mancino che, a sua volta, aveva tirato a quell’imbroglione di Gaudenzio. E Filiberto osservava dalle stanze della cucina, con un sorriso splendente come la lama del suo coltellaccio lucidato e una mano sul gruzzolo nella tasca della sua veste. E tutti ridevano, mentre decine e decine di ancille erano indaffarate lungo la tavola del sontuoso banchetto.

Quando d’un tratto, alle finestre della domus in mezzo alla folla accorsa a vedere le nozze della filia del senatore Gaudenzio, si intrufolò un giovine dall’aspetto scarmigliato, il viso disorientato.

“Che ti succede, puer? Hai la faccia di uno che è appena evaso di prigione?”, gli disse un agricola, vicino a lui.

“Non sei lontano dalla verità, sono appena sfuggito alle grinfie di un cuoco manigoldo… ma che succede qua dentro, villicus? Perché tutta questa gente qui ad osservare?”

“Ma come, non lo sai? Oggi si sposano la filia del senatore Gaudenzio e quel baldo giovine là, il cui nome è Bruschino”.

“Bruschino, per Ercole! Hai detto… Bruschino?!?”

“Già, il signor Bruschino. Amantes amentes, mio caro puer!”


 
[1] Malocchio