Il
giovane favoloso, recensione di Michele Canalini
Un
tuffo al cuore. Questo è l’effetto che suscita il film di Martone.
Toccante, commovente, conturbante. Perché Elio Germano si cala nel
ruolo del grande poeta della nostra tradizione letteraria, e lo fa
con un’intensità e un’immedesimazione che sconvolgono lo
spettatore.
Ci
appare in tal modo un Leopardi adolescente che traduce i versi di
Omero all’impronta, ascoltandone la lettura dalla voce rauca del
sacerdote chiamato dal padre Monaldo come precettore ufficiale della
famiglia. E mentre traduce, il giovane si contorce, s’avvita su
stesso come in preda a un spasmo irrefrenabile; e contemporaneamente
s’estasia di fronte alla bellezza di un verso, al suono di una
parola, al significato di un vocabolo che lui interpreta come
“ombelico”. L’ombelico dell’oceano e centro del mondo che
risucchia nei suoi gorghi l’esule Ulisse: e ombelico di sentimenti
e afflati dai quali è stato risucchiato lui stesso nei suoi sette
anni di “studio matto e disperatissimo”.
Elio
Germano sorprende, affascina, conturba appunto: il “suo” Giacomo
è un individuo ammorbato da un malessere fisico delimitante quasi al
cento per cento, che lo rende più simile a un bambino autistico che
a un letterato dell’ottocento. Leopardi si strugge, zoppica,
arranca, cammina a stento, s’aggrappa agli astanti per non
naufragare nel vortice della propria disperazione assoluta, e respira
affannosamente come se il suo fosse sempre l’ultimo respiro del
naufrago, prima di essere travolto dalle onde.
Eppure,
nonostante tutto ciò, Leopardi sopravvive, continua a resistere
tenacemente; e continua a lasciare la sua testimonianza lucida e
irripetibile, dell’uomo che è innamorato (una sequenza lo ritrae
solitario, nel cuore della casa di notte, a recitare alla luna i
versi de “La sera del dì di festa”, forse pensando a Silvia che
abita dall’altra parte della piazza). E ci lascia anche la
testimonianza dell’uomo infelice che non si rassegna alle
presunzioni ottimistiche del suo secolo (memorabile nel film la
declamazione di sofferenza, con tanto di veemente battito del bastone
a terra, al cospetto di alcuni intellettuali napoletani durante una
vacua e interminabile conversazione al caffè); ci lascia la
testimonianza di un dolore che non piega il capo al destino avverso
né alla violenza della natura (altrettanto memorabile e suggestiva è
la scena dello spettacolo dell’eruzione del Vesuvio, naturale
epilogo dell’epifania per nulla metafisica della ginestra). A
conferma di ciò, Roberto Saviano ha scritto su “L’Espresso”
che Martone è stato in grado di mettere a nudo l’esperienza più
intima della “souffrance” leopardiana, facendo sì che
quest’ultima esulasse dalla contingente componente corporea per
divenire invece, più a fondo e universalmente, il fulcro di una
riflessione profonda e finalmente matura sul dolore. Il dolore del
poeta. Il dolore del genere umano.
Tutto
questo conferma l’impressione di fondo che emerge dalla visione
della pellicola. Non è stata la sofferenza la matrice essenziale
della gnoseologia leopardiana ma essa è stato solo uno strumento
essenziale, forse lo strumento per antonomasia, per una comprensione
realistica e disincantata del reale. Si rovescia ancora una volta
l’assunto carducciano: la grandezza del sentire leopardiano non
trova la sua ragion d’essere nelle infermità fisiche né lo trova
la sua concezione pessimistica dell’uomo: anzi, e Martone lo espone
chiaramente, solo il dolore vissuto come esperienza di testa e non di
corpo consente il tramite al raggiungimento di quei traguardi della
filosofia umana a cui gli esseri mediocri neanche possono aspirare.
Da questo punto di vista Leopardi è esclusivamente un eroe, nella
pura accezione romantica: e lo è in quanto superiore agli altri,
soprattutto da infermo. Tra le tante, c’è una scena straziante del
film che lo ricorda: Leopardi si lascia cadere a terra sul margine
dell’Arno, dopo la delusione amorosa nei confronti della nobildonna
Fanny Targioni Tozzetti. Il poeta è colpito per l’ennesima volta
dagli strali del destino ma questa sembra la volta fatale.
L’inquadratura si allarga, rimpicciolendo Germano affranto al
suolo, sull’erba della riva, e inquadrando nello sguardo d’assieme,
dall’alto, tutto quello che circonda il poeta: il fiume che scorre,
la vita degli altri cittadini ignari e indifferenti nella gaudente
Firenze degli anni Trenta del XIX secolo, il paesaggio naturale, la
vita delle altre creature e degli altri esseri. Leopardi microcosmo
pronto a implodere dentro di sé, all’interno di un macrocosmo che
non se ne cura e che probabilmente neanche prenderà consapevolezza
di tale implosione. Quasi a voler ricalcare le parole (e le fattezze)
del gigante Natura del celeberrimo dialogo delle Operette. Ma qui sta
la grandezza leopardiana: il poeta rinasce, non nel senso di una
palingenesi personale, ma nell’accezione di una tenacia di volontà
di chi sa che il suo dovere della testimonianza è più importante,
più forte e anche più bello dell’inesorabile violenza
meccanicistica della lava e di questo mondo più in generale. La
testimonianza di un Vero senza appelli e senza finzione, senza
mascheramenti ma solo con la lucida consapevolezza del proprio
essere. Così come fa il fiore della ginestra.
E
Martone accompagna quest’ultima fase con una poesia senza eguali:
Leopardi cammina per i vicoli della vecchia Napoli alla ricerca della
Vita, accompagnato dalle melodie di Rossini, altro “grande”
(marchigiano) dell’Ottocento. E, nel farlo, Martone filtra alcune
melodie dal vasto repertorio del cigno pesarese. Conosce bene
Rossini, Martone. Collabora spesso, egli, al Rossini Opera Festival,
curando l’allestimento delle opere (tra i ringraziamenti nei titoli
di coda, appare anche il sovrintendente del Rof, Gianfranco
Mariotti). Il regista napoletano allora sceglie le Sonate a quattro e
gli accordi iniziali dell’ouverture del Guillaume Tell, dando
spazio assoluto ai suoni degli archi. Come a dire: la vita di
Leopardi è diventata un’avventura e solo una musica incalzante può
seguirne le imprese degne di tale fama. E l’effetto è davvero
struggente, mozzafiato. Così come lo è, e non ci stanchiamo di
ripeterlo, l’interpretazione di Elio Germano che porta sulla scena
ciò che scenicamente non avrebbe avuto senso di essere
rappresentato. Come non abbiano fatto ad accorgersi a Venezia,
all’ultima Mostra, sorprende davvero. O, a pensarci bene, forse non
sorprende affatto.
In
un recente articolo per Repubblica, Martone ha dichiarato di volersi
dedicare forse un domani anche alla vita dei genitori di Giacomo,
l’algida Donna Adelaide e il geloso ma autoritario Monaldo: forse
lo ha detto sulla scia dell’entusiasmo per il film, oppure
continuando quel percorso che aveva trovato una prima tappa nella
messa in scena a teatro delle Operette Morali. Fatto sta che Il
giovane favoloso si presenta come opera di fronte alla quale,
contrariamente alla freddezza di certi personificazioni leopardiane,
difficilmente si riesce a restare insensibili; e all’uscita dalla
sala si prova quella sensazione, quel languore, quel canto che
“lontanando morire a poco a poco, già similmente” ci “stringeva
il core”.