venerdì 28 settembre 2018


"La grammatica della vergogna"

(A proposito dei bimbi stranieri di Lodi,
esclusi dalla mensa e dal servizio scolastico)


Sabato 22 settembre, controllando le notifiche di facebook sul mio telefono, mi è caduto l’occhio su un post di un amico, così intitolato: Vergogna, Lodi!.
Cosa diavolo è successo adesso a Lodi? – mi sono chiesto, alquanto incuriosito. Faccio una breve rassegna stampa e poi trovo un articolo sul Fatto Quotidiano, di quello stesso giorno, a firma di Davide Milosa: Niente più bambini stranieri a scuola.
Allora è vero, penso. E mi inoltro nella lettura. E scopro che il comune lombardo ha approvato da poco una delibera del proprio consiglio che impone agli stranieri extracomunitari di presentare, oltre alla dichiarazione dei redditi, certificazioni di non-possesso di beni immobili e altro nei loro luoghi d’origine, per poter poi aver diritto alle rette più basse delle mense e del trasporto scolastico per i loro bambini. Mentre gli italiani – cittadini Ue – possono presentare la semplice autocertificazione. Certificazioni che nessuno degli immigrati – quasi tutti egiziani e residenti in Italia da anni – riuscirà mai a recuperare probabilmente. Ragion per cui i loro figli dovranno pagare la retta più alta per questi servizi. Che chiaramente le famiglie, per ragioni economiche, non saranno in grado di onorare. Ergo – e torno al presente – questi bimbi sono costretti a mangiare a scuola in un sotterraneo portandosi panini, frutta e verdura da casa mentre i loro compagni – italiani – possono tranquillamente accedere alla mensa comunale.
Vergogna, Lodi! – replico di nuovo dentro di me, come un ritornello. E poi mi metto a riflettere. Penso alla decisione di questa amministrazione comunale, guidata da una sindaca leghista a partire da giugno 2017. Penso al clima che si respira oggi in Italia. Alle tante affermazioni che giornali e televisioni riportano incessantemente. Alla propaganda, alle strumentalizzazioni, al ritorno di certi “fascismi di pensiero e di parola” che preoccupano – e non solo di pensiero e di parola, vedi Bari.
Poi penso ad alcune nuove regole, la cui introduzione oggi viene tanto sbandierata a salvaguardia dell’incolumità del popolo italiano e della sua terra. E penso alle regole della grammatica. Così, con un salto pindarico e forse per distorsione professionale, perché faccio l’insegnante di italiano in una scuola pubblica. Fiero di esserlo.
In grammatica, se si vuole parlare una lingua chiara e comprensibile, bisogna rispettare certe regole, alcune più semplici, altre più complicate. Se il soggetto è singolare, per esempio, il predicato verbale non può essere plurale: “L’uomo parlavano” è un assurdo, così come dire “Le lepri correvano le carote”. Se un verbo è intransitivo, mettere nella frase un complemento oggetto non ha senso. E non è neanche logico.
Fin qui, tutto molto chiaro, semplice, lapalissiano direi. La logica è importante nella vita quotidiana delle persone, quanto il pane che si mangia o gli abiti che s’indossano. Non mi pare che ci siano dubbi, a tal proposito.
Allora, sempre seguendo la logica, se io in un modo o nell’altro, ora non importa come, impedisco ad alcuni bambini di mangiare nella mensa con i propri coetanei e offro loro un sotterraneo dove poter consumare solo quello che si possono portare da casa, cosa “penso” di ottenere? Magari, io, come amministrazione, sono perfettamente ligio alle mie delibere e magari in regola con i decreti del governo o della presidenza del consiglio dei ministri: ma quale risultato, a breve e a lungo termine, mi aspetto?
Torniamo a questi bambini: isolati ed emarginati al momento del pranzo, si guardano attorno e si riconoscono tutti come provenienti da altri paesi non europei; quindi, pensano agli altri – quelli al piano sopra, alla mensa, con i piatti caldi e fumanti – che sono come loro, della stessa età ma figli di genitori italiani. Questi bambini, dunque, nel corso della loro crescita e formazione, cosa potranno pensare? Quali sentimenti potranno maturare? Alla faccia della “pedagogia degli oppressi” di freiriana memoria.
Tuttavia, qui non c’entra niente la pedagogia, né l’etica. Neanche la politica. Neppure la religione. È proprio una questione di logica: se io racchiudo alcuni bimbi in uno scantinato per il pranzo quando questi frequentano la scuola – il massimo della socialità alla loro età e un momento cruciale per la ricerca dell’identificazione del sé – e lascio gli altri mangiare nella mensa pulita con i piatti pronti, cosa mi posso aspettare da loro un domani? Che siano realmente integrati? O desiderosi di farlo, anche se da piccoli li hanno costretti a mangiare come ladri in prigione? O cos’altro?
Allora, tornando alla grammatica, deduco – non uso di nuovo il termine pensare, perché pensare troppo fa male – che, se seguo delle regole sbagliate, non logiche per l’appunto, ottengo dei risultati fallaci. O insensati. Oppure, rovesciando la questione, la posso anche impostare così: io seguo delle regole, non logiche, ma coerenti; e applicando tali regole, ostinatamente e con convinzione, io comunque ottengo un risultato. Quale risultato, dunque?
La vergogna, no?, mi pare logico.
Fortunatamente, non tutti a Lodi sono d’accordo con l’iniziativa della giunta. Tra gli altri, – riporto sempre dall’articolo del Fatto Quotidiano – un gruppo di genitori italiani (che bello!), un coordinamento chiamato “Uguali doveri” e persino alcuni hacker che hanno violato il sito della provincia per protestare contro questa delibera comunale. Insomma, non facciamo di tutta l’erba un fascio e non facciamo di tutta Lodi un’unica delibera; tanto più che Lodi è una bella cittadina che fu sede dell’omonima pace che, nel lontano 1454, pose fine alle guerre tra gli Stati italiani, inaugurando un lungo periodo di pace. Premessa storica al fiorire del Rinascimento.
Pace, Lodi!, allora. Peccato che quest’ultima vicenda sia esplosa come una vera e propria bomba, a livello mass-mediatico.
Ma non mi piace chiudere questo scritto con un’immagine di deflagrazione, c’è già troppo “fragore” in giro per i miei gusti. Voglio invece rivolgermi al “clamore” che fece un romanzo alla sua uscita più di sessant’anni fa.
Penso – ancora! – e mi ritornano in mente le parole di quel testo che conobbe un grande successo di pubblico ma dovette subire un processo per oscenità.
“Il Riccetto era tutto ben disposto nel vedere come le cose andavano lisce, e quasi quasi un poco commosso, nel suo insolito imbarazzo. «Mo quanno se magna?», chiese, pieno di aspettativa. «Boh, fra poco», rispose il Caciotta. […] Poi i frati li chiamarono battendo le mani, li fecero entrare in uno stanzone dove c’erano dei tavoli di dieci metri l’uno con intorno delle panche: gli diedero due sfilatini asciutti per uno e due scodelle di pasta e fagioli, gli fecero dire: In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e li fecero mangiare”.
È una storia di accoglienza, questa, tra ultimi, reietti, emarginati. E finalmente qualcuno – i frati! – che invita dei bisognosi alla loro mensa, senza escludere nessuno. Altra storia, forse, altri tempi. Il romanzo è Ragazzi di vita, di Pier Paolo Pasolini. Altro intellettuale e uomo.
Michele Canalini