mercoledì 25 febbraio 2015


Il giovane favoloso, recensione di Michele Canalini
Un tuffo al cuore. Questo è l’effetto che suscita il film di Martone. Toccante, commovente, conturbante. Perché Elio Germano si cala nel ruolo del grande poeta della nostra tradizione letteraria, e lo fa con un’intensità e un’immedesimazione che sconvolgono lo spettatore.
 Il giovane favolosо (film).png
Ci appare in tal modo un Leopardi adolescente che traduce i versi di Omero all’impronta, ascoltandone la lettura dalla voce rauca del sacerdote chiamato dal padre Monaldo come precettore ufficiale della famiglia. E mentre traduce, il giovane si contorce, s’avvita su stesso come in preda a un spasmo irrefrenabile; e contemporaneamente s’estasia di fronte alla bellezza di un verso, al suono di una parola, al significato di un vocabolo che lui interpreta come “ombelico”. L’ombelico dell’oceano e centro del mondo che risucchia nei suoi gorghi l’esule Ulisse: e ombelico di sentimenti e afflati dai quali è stato risucchiato lui stesso nei suoi sette anni di “studio matto e disperatissimo”.
Elio Germano sorprende, affascina, conturba appunto: il “suo” Giacomo è un individuo ammorbato da un malessere fisico delimitante quasi al cento per cento, che lo rende più simile a un bambino autistico che a un letterato dell’ottocento. Leopardi si strugge, zoppica, arranca, cammina a stento, s’aggrappa agli astanti per non naufragare nel vortice della propria disperazione assoluta, e respira affannosamente come se il suo fosse sempre l’ultimo respiro del naufrago, prima di essere travolto dalle onde.
Eppure, nonostante tutto ciò, Leopardi sopravvive, continua a resistere tenacemente; e continua a lasciare la sua testimonianza lucida e irripetibile, dell’uomo che è innamorato (una sequenza lo ritrae solitario, nel cuore della casa di notte, a recitare alla luna i versi de “La sera del dì di festa”, forse pensando a Silvia che abita dall’altra parte della piazza). E ci lascia anche la testimonianza dell’uomo infelice che non si rassegna alle presunzioni ottimistiche del suo secolo (memorabile nel film la declamazione di sofferenza, con tanto di veemente battito del bastone a terra, al cospetto di alcuni intellettuali napoletani durante una vacua e interminabile conversazione al caffè); ci lascia la testimonianza di un dolore che non piega il capo al destino avverso né alla violenza della natura (altrettanto memorabile e suggestiva è la scena dello spettacolo dell’eruzione del Vesuvio, naturale epilogo dell’epifania per nulla metafisica della ginestra). A conferma di ciò, Roberto Saviano ha scritto su “L’Espresso” che Martone è stato in grado di mettere a nudo l’esperienza più intima della “souffrance” leopardiana, facendo sì che quest’ultima esulasse dalla contingente componente corporea per divenire invece, più a fondo e universalmente, il fulcro di una riflessione profonda e finalmente matura sul dolore. Il dolore del poeta. Il dolore del genere umano.
Tutto questo conferma l’impressione di fondo che emerge dalla visione della pellicola. Non è stata la sofferenza la matrice essenziale della gnoseologia leopardiana ma essa è stato solo uno strumento essenziale, forse lo strumento per antonomasia, per una comprensione realistica e disincantata del reale. Si rovescia ancora una volta l’assunto carducciano: la grandezza del sentire leopardiano non trova la sua ragion d’essere nelle infermità fisiche né lo trova la sua concezione pessimistica dell’uomo: anzi, e Martone lo espone chiaramente, solo il dolore vissuto come esperienza di testa e non di corpo consente il tramite al raggiungimento di quei traguardi della filosofia umana a cui gli esseri mediocri neanche possono aspirare. Da questo punto di vista Leopardi è esclusivamente un eroe, nella pura accezione romantica: e lo è in quanto superiore agli altri, soprattutto da infermo. Tra le tante, c’è una scena straziante del film che lo ricorda: Leopardi si lascia cadere a terra sul margine dell’Arno, dopo la delusione amorosa nei confronti della nobildonna Fanny Targioni Tozzetti. Il poeta è colpito per l’ennesima volta dagli strali del destino ma questa sembra la volta fatale. L’inquadratura si allarga, rimpicciolendo Germano affranto al suolo, sull’erba della riva, e inquadrando nello sguardo d’assieme, dall’alto, tutto quello che circonda il poeta: il fiume che scorre, la vita degli altri cittadini ignari e indifferenti nella gaudente Firenze degli anni Trenta del XIX secolo, il paesaggio naturale, la vita delle altre creature e degli altri esseri. Leopardi microcosmo pronto a implodere dentro di sé, all’interno di un macrocosmo che non se ne cura e che probabilmente neanche prenderà consapevolezza di tale implosione. Quasi a voler ricalcare le parole (e le fattezze) del gigante Natura del celeberrimo dialogo delle Operette. Ma qui sta la grandezza leopardiana: il poeta rinasce, non nel senso di una palingenesi personale, ma nell’accezione di una tenacia di volontà di chi sa che il suo dovere della testimonianza è più importante, più forte e anche più bello dell’inesorabile violenza meccanicistica della lava e di questo mondo più in generale. La testimonianza di un Vero senza appelli e senza finzione, senza mascheramenti ma solo con la lucida consapevolezza del proprio essere. Così come fa il fiore della ginestra.
E Martone accompagna quest’ultima fase con una poesia senza eguali: Leopardi cammina per i vicoli della vecchia Napoli alla ricerca della Vita, accompagnato dalle melodie di Rossini, altro “grande” (marchigiano) dell’Ottocento. E, nel farlo, Martone filtra alcune melodie dal vasto repertorio del cigno pesarese. Conosce bene Rossini, Martone. Collabora spesso, egli, al Rossini Opera Festival, curando l’allestimento delle opere (tra i ringraziamenti nei titoli di coda, appare anche il sovrintendente del Rof, Gianfranco Mariotti). Il regista napoletano allora sceglie le Sonate a quattro e gli accordi iniziali dell’ouverture del Guillaume Tell, dando spazio assoluto ai suoni degli archi. Come a dire: la vita di Leopardi è diventata un’avventura e solo una musica incalzante può seguirne le imprese degne di tale fama. E l’effetto è davvero struggente, mozzafiato. Così come lo è, e non ci stanchiamo di ripeterlo, l’interpretazione di Elio Germano che porta sulla scena ciò che scenicamente non avrebbe avuto senso di essere rappresentato. Come non abbiano fatto ad accorgersi a Venezia, all’ultima Mostra, sorprende davvero. O, a pensarci bene, forse non sorprende affatto.
In un recente articolo per Repubblica, Martone ha dichiarato di volersi dedicare forse un domani anche alla vita dei genitori di Giacomo, l’algida Donna Adelaide e il geloso ma autoritario Monaldo: forse lo ha detto sulla scia dell’entusiasmo per il film, oppure continuando quel percorso che aveva trovato una prima tappa nella messa in scena a teatro delle Operette Morali. Fatto sta che Il giovane favoloso si presenta come opera di fronte alla quale, contrariamente alla freddezza di certi personificazioni leopardiane, difficilmente si riesce a restare insensibili; e all’uscita dalla sala si prova quella sensazione, quel languore, quel canto che “lontanando morire a poco a poco, già similmente” ci “stringeva il core”.