venerdì 1 febbraio 2013

RACCONTI D'OPERA: Tancredi

Nella terra assolata della Sicilia, intorno all’anno Mille, una lunga lotta era in corso da tempo tra i pupi bianchi e i pupi neri per il controllo di Siracusa. E lungo le coste si aggiravano le navi di Solamir, la terribile marionetta saracena che da tempo stava aspettando il momento opportuno per assalire l’antica colonia greca e conquistarla con la forza delle armi.
E ci hanno raccontato che in quella terra c’era anche un pupo di color grigio, di nome Tancredi, che venne però cacciato dalla città perché accusato di tradimento. Ma il motivo vero era il colore del suo metallo, che non apparteneva né ai bianchi né ai neri. E quando Argirio, capo dei bianchi, lo aveva indicato come nemico della patria, a lui si era subito associato nelle accuse Orbazzano, capo della fazione avversaria; e da quel momento in poi era stata la pace tra bianchi e neri, ed entrambi avevano costretto alla fuga il giovane cavaliere e poi si erano alleati per difendersi dagli assalti di Solamir, le cui navi erano sempre visibili lungo il caldo orizzonte marino.

Ma Tancredi era un pupo tenace, e non si curava del giudizio altrui. E non si curava degli altri perché Tancredi si era innamorato. E s’era innamorato di una bellissima pupa bianca, con il sorriso radioso della terra sicula in cui era nata: Amenaide. Ma Amenaide, benché ricambiasse il sentimento puro e disinteressato di Tancredi, era stata destinata in sposa proprio a Orbazzano, perché così aveva deciso il padre, Argirio, per sancire l’alleanza con i neri. E di giorno Amenaide sorrideva al genitore, con le sue labbra dolci come le arance di quella terra, ma di notte piangeva, piangeva alla finestra, e piangeva la sua pena d’amore.

Il sole s’era alzato ancora per illuminare il palcoscenico delle marionette; eppure il sole non sapeva che, nel cuore delle tenebre, due coraggiosi pupi con una piccola scialuppa avevano aggirato le pericolose navi saracene ed erano sbarcati sulla costa, nascondendosi poi al riparo delle palme. Ora, nel delizioso parco del palazzo di Argirio, Amenaide passeggiava in mezzo a quel verde, solitaria e assorta nei suoi pensieri; Tancredi uscì allo scoperto e il metallo della sua corazza non ci era mai sembrato così bello e lucente, per quanto grigio nella sua cromatura; e, al vederlo, Amenaide sentì sobbalzare il cuore. Ma dovette ben presto soffocare dentro di sé questo sentimento perché la graziosa pupa allontanò da sé il giovane innamorato: vattene, gli disse, perché lei non lo amava più e ora amava soltanto Orbazzano, la nera e potente marionetta siracusana.

Tancredi, disperato, fuggì, lasciando lì anche il fidato Roggiero, che lo aveva accompagnato sino a quel momento lungo tutte le sue peregrinazioni e non lo aveva mai abbandonato, anche dopo la condanna del gran senato dei pupi. E non immaginate neanche la faccia di Roggiero, stupito e affranto, mentre cirri di nubi stavano ricoprendo il volto del sole in cielo.

Allora Tancredi raggiunse subito il palazzo di Argirio e si presentò a lui, senza rivelargli la sua identità. Voglio combattere per Siracusa, fu la sola cosa che disse. Ma, prima di presentarsi al cospetto del gran capo, si era pitturato la corazza di bianco e aveva nascosto il lungo mantello, con le insegne normanne della sua antica casata siciliana. Argirio aveva assentito con piacere e gli aveva dato anche una spada, sicuro che quel baldo giovane avrebbe dato il proprio sangue pur di difendere la città che una volta era stata difesa dal grande matematico Archimede.

E venne il giorno del matrimonio: Amenaide era bellissima e lo splendore dei suoi snodi e dei suoi filamenti abbagliava tutti gli ospiti, mentre Orbazzano le era accanto, superbo nei movimenti della sua meccanica scura. Ma Amenaide vide tra i soldati bianchi del padre il giovane Tancredi e scoppiò a piangere. Non posso, disse al padre attonito che le si era avvicinato per consolarla, non posso sposarlo, non lo amo; e Orbazzano l’aveva guardata, con ciglio indispettito. E poi aveva gridato al tradimento, ah, donna infedele e fedifraga!, hai tradito Siracusa, le aveva urlato contro Orbazzano sempre più furioso, costei ha una relazione con il nostro terribile nemico Solamir e con lui sta complottando per conquistare la nostra città! E aveva chiesto la condanna a morte della sventurata marionetta. E, nonostante lo sgomento di Argirio impossibilitato a opporsi, Orbazzano l’aveva ottenuta.

Nella gran piazza di Siracusa c’era tutta la città, dai più importanti maggiorenti sino agli umili artigiani, tutti in attesa dell’esecuzione della gran traditrice; una volta celeste plumbea oscurava il patibolo mentre gli agrumeti erano velati da una macabra ombra. La folla dei pupi, bianchi e neri, era immobile, congelata in un silenzio senza tempo. Orbazzano dall’alto del palco aveva sollevato il braccio per suggellare il suo potere; a fianco a lui c’era Argirio, impotente e inerme, ormai ridotto a una marionetta senz’anima. Alla forca i diversi, alla forca i traditori!, aveva gridato il condottiero dei neri e la folla aveva alla fine risposto al suo invito con un lungo e lugubre urlo di approvazione. Ma dal nulla emerse la figura di un paladino bianco, in piedi sopra le teste degli altri pupi. Impavido era, e gridava di no, perché lui non era d’accordo, perché nessuno aveva ascoltato le ragioni di Amenaide. Come osi?, aveva replicato con sdegno Orbazzano, con gli occhi iniettati di sangue e di violenza. Il paladino bianco era salito d’irruenza sul palco e aveva sguainato la spada. Era incominciato un lungo duello e noi, che lo abbiamo visto, non siamo in grado di raccontarvi con quanta foga i due si combatterono, con quanto slancio si lanciarono l’uno sopra l’altro, quante scintille esplosero dall’urto tremendo delle loro spade. Restammo tutti ipnotizzati di fronte a questa lotta primordiale tra i due pupi: ma alla fine solo uno restò in piedi, e questi era Tancredi.

E la coraggiosa marionetta di stirpe normanna si tolse la corazza bianca, e ne mostrò una sotto di color nero; e poi tolse quella nera per mostrare quella grigia, la sua. E solo allora sfoderò anche il suo lungo e pregiato metallo di tessuto fenicio, con l’incisione del suo stemma familiare. E anche ora noi non saremmo in grado di raccontarvi quello che successe dopo, tanto il nostro animo era immerso in quello che si mostrava ai nostri occhi. L’unica cosa che possiamo fare è riportare la parole che Tancredi pronunciò subito dopo: “Siracusani, io sono Tancredi, il pupo grigio che avete cacciato perché considerato diverso da voi bianchi e neri. Ma sono anche un pupo bianco, come vi ho mostrato poco fa, nel duello con il crudele Orbazzano; ma sono anche un pupo nero, perché mi sento siracusano quanto voi; ma sono anche normanno, perché questo è il mio stemma e perché così sento nel mio sangue. E sono un pupo come voi, una marionetta di legno in questo teatro”. E si tolse anche l’ultima corazza, per mostrare il cuore venato di nodi.

(Versione liberamente ispirata al soggetto del libretto dell’omonima opera di G. Rossini)