Madama Cortese aveva radunato
tutti gli ospiti nei locali de “Il Giglio d’oro”, a Plombières. Non era quello
il loro primo incontro ma era necessario rivedersi tutti assieme, prima di
scendere a Reims per la nomina del Gran Sommelier. E Madama Cortese voleva dare
le ultime disposizioni sul caso. Accanto a lui c’era don Prudenzio, il dottore,
sempre solerte nella distribuzione delle dosi.
“Veloci con le colazioni, c’è
poco tempo!” – aveva rimbrottato l’anziano medico, indicando i cucchiai.
“Ma i miei bagagli? Dove sono??”
– aveva esclamato con angoscia la Contessa di Folleville, una delle ospiti.
“Signora mia cara, prenderà altre
valigie… su, su, veloci!”.
“Eh, no! Io parto solo con i miei
bagagli perché lì ho tutti i miei abiti migliori! E anche il mio cappellino!”
“Contessa, la prego, non insista.
Abbiamo poco tempo…” – aveva ripreso più docilmente don Prudenzio.
La giovane aristocratica allora
esplose in un grido acutissimo che tagliò l’aria come un fendente celeste. “Iiihh…”.
“No, contessa, la prego! Darò
subito ordine di recuperare tutto, vedrà che partirà con i suoi abiti!” – era
subito accorsa Madama Cortese per cercare di contenere la reazione della donna.
“Io non parto se la contessa non
recupera subito il cappellino”. Era stato il turno, questa volta, del Barone di
Trombonok. La sua esclamazione era rimbombata per tutta la sala, rinforzata
dalla postura indispettita, a braccia conserte, assunta dall’ufficiale tedesco.
“Ecco, ci mancava solo questa.” –
replicò don Prudenzio, sollevando gli occhi al cielo.
“Ma no, Barone, stia tranquillo,
risolveremo presto tutto!” – s’era precipitata Madama Cortese, più per
consolare se stessa che gli altri. Ma non aveva fatto in tempo a pronunciare
tali parole, che la caduta inerme del corpo della contessa risuonò lungo le
assi della terrazza.
“Aahh!” – gridò Madama Cortese.
“Aaahhh!!” – gridò più isterico
don Profondo, appena sopraggiunto sulla scena.
“Sali di ammonio!” – gridò questa
volta don Prudenzio, non meno enfatico degli altri.
Giunsero anche don Alvaro e il
conte di Libenskof, entrambi a braccetto della marchesa di Melibea. Di cui entrambi
innamorati.
“È terribile!” – esordì il primo,
tirando dalla sua parte la dama, vedova ambita di un generale polacco.
“Vergognoso!” – ribatté il conte,
tirando a sua volta la damigella.
“Inaudito!” – rinforzò la
marchesa, liberandosi con uno strattone dagli artigli dei due famelici pretendenti.
Non s’era compreso se si riferisse allo svenimento della contessa o alla
stretta marcatura di cui era suo malgrado vittima.
“Cara…” – irruppe improvvisamente
Corinna, l’operatrice sanitaria, accosciandosi per rianimare l’ormai eterea
contessa di Folleville.
“Cara…” – le si era rivolto lord
Sidney, all’inseguimento di Corinna e anch’egli improvvisamente precipitato
sulla scena. Più probabile che la sua premura fosse rivolta a Corinna, di cui era
infatuato da tempo, che alla graziosa parigina, ormai da qualche minuto esanime
al suolo.
“Dia a me!” – fu il gesto energico
con cui don Prudenzio strappò di mano allo svampito lord il bel mazzo di rose
profumate con cui dava la caccia alla sfuggente Corinna, come un novello
apollo. Il medico pose le corolle sul viso della contessa, generando così un
lento quanto istrionico risveglio di sensi nella leggiadra aristocratica.
Ma ecco Zefirino, corriere del
Giglio, ansimante: “Non ci sono più posti per Reims!”
“No!” – “Aiuto!” – “Che
disgrazia” – “Non riusciremo mai a…” – “È finita!” – fu l’ultimo commento perentorio.
“Signori, amici, andremo allora a
Parigi, ospiti della mia taverna. E lì stapperemo una bottiglia del Sauvignon
di mio marito!”
“Evviva!” – fu il plauso
collettivo di approvazione. E grande festa si celebrò tra gli ospiti. E anche
don Prudenzio mise da parte lo scetticismo e alzò in su il calice.
Rigorosamente riempito ad aranciata, come prevedeva il regolamento della casa
di accoglienza degli alcolisti anonimi del Giglio d’Oro.
(Libera interpretazione e rifacimento del soggetto dell’omonima opera
rossiniana).
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